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ALLA CONQUISTA DI ROMA

 

roma1.jpg (58006 byte)

 

Avere vent’anni

e seminare il bene

a piene mani

e dire a chi

s'incontra lungo la via

che il dovere va

compiuto a festa.

Avere vent’anni

e correre

nelle strade del mondo

e riprendere ogni mattina

il proprio cammino in festa

con balzo rialzarsi quando

il piede dolorosamente falla

e poi con ardore nuovo

camminare ancora.

Tu che mi ascolti

sappi d’averli vent’anni

siano leva per te

che ti sollevi da terra

siano ali per te

che ti portano in alto

corri giovinezza cerca il sole

guarda in alto ti batterà in fronte.

 

 

veraragazzina.jpg (14348 byte)Avevo ottenuto, senza "incidenti", il permesso da mio padre di recarmi da sola a Roma. Il mio prima viaggio era la mia prima grande conquista.

A Roma da sola! Beh! figuriamoci, a quei tempi, anche se il "sessantotto" era trascorso rumorosamente, era sempre uno scandaloso, soprattutto per le nostre "parti" andare al cinema figuriamoci partire da sole.

Allora non avevo neanche vent’anni e lo stipendio di un mese in tasca. Per la prima volta avevo lasciato il nido natale per affrontare, da sola, un viaggio di lavoro verso l’eterna capitale.

Dovevo consegnare documenti da firmare, nelle mani di un grosso personaggio e per questo avevo ottenuto, in cambio, una settimana di permesso. Potevo ormai considerarmi una donna, anche se ancora non avevo raggiunto la maggiore età. Ero già una ragazza che aveva conquistato la sua indipendenza e che da tempo aveva smesso d’essere un’adolescente.

Quella mattina scesi dal treno più stordita di un’ubriaca. La valigia carica d’ogni cosa. Con passi, lentamente scanditi come battiti d’orologio, camminavo sotto il cielo di Roma, portando a spasso il bagaglio vuoto dell’esperienza e una vita ancora tutta da vivere.

Col mio giubbottino di coniglio (pardon lapin) addosso, sfoggiavo la mia prima pelliccetta. In fondo era la realizzazione del sogno di possederne una.

Con un profondo respiro avevo calmato ogni emozione prima di varcare l’ingresso di quell’albergo in via Principe Amedeo.

"Ho una prenotazione a mio nome" dissi, con l’indispensabile e preziosa ostentazione di sicurezza al portiere. In fondo tremavo da tutte le parti.

"Singola?"

"Sì."

Erano gli anni settanta. Anni che offuscavano, con i nuovi miti, i residui sessantottini ed io, impalata nell’ascensore, assieme al vecchietto in divisa che teneva la mia valigetta di finta pelle rossa, guardavo l’intermittenza delle luci sui numeri che segnavano il piano. Si fermò al quarto piano. L’ometto percorse in silenzio il tratto di corridoio. Infilò la chiave nella toppa e, appena la porta fu aperta, misi nel palmo della sua mano un prezioso foglietto di lire mille. Lui ringraziando sparì con lo stesso silenzio.

Dalla finestra giungevano nitidi i suoni dell’eterna Città. Ed io, ormai calata in quella nuova interpretazione non mi preoccupavo né di fissare norme né regole. Non trascorse che poco tempo e mi ritrovai di nuovo per strada. Colorata come un mazzo di fiori appena colto, odoravo di colonia. Ricordo che la testa mi girava, a furia di camminare con il naso all’insù con gli occhi leggermente strizzati provavo la sensazione d’aver squarciato un muro. Quasi mi pareva svenire scoprendo, ad ogni angolo la suggestione romana.

Mi sentivo scaldata come una lucertola al sole. Il cuore mi batteva a fior di pelle. Inebriata di quell’aria che sapeva di glicine e di libertà, m’incantavo al suono di quel dialetto "romano".

Misteriosamente indulgenti, verso di me, gli alberi erano li, inchiodati ai bordi della strada. Sembravano testimoniare la loro immutevole potenza con i rami protesi verso il cielo. Persino il sole sembrava più vivo sopra i gatti sornioni che se lo godevano. Mi rivedo ancora mescolata tra la folla. Avevo rinnegato, senza rimorso, il canto della mia Trinacria. Rinnegato il sapore dei gelsomini, dei limoni, del mare di Ognina per fare di me una figlia della "Lupa". roma.jpg (42700 byte)

La presenza delle tante costruzioni, che con la forza di una trasparenza arcaica, lacerava il sottile velo che divideva il passato con il presente. Dentro la rovina c’era un mondo sempre nuovo. La storia dei giorni, che non potevano mai essere miei, era lì come una presenza sensuale, erotica, affascinante e consapevole di mostrarsi rassegnata avvenente come una donna in copertina.

Quella bufera di felicità, che si scatenava con lotta impara, Mi schiacciava come una formica sotto il tacco e, da animale affamato, divoravo il pasto quelle immagini, che pur assaporandoli con gli occhi, m’incutevano paura.

La dolcezza della luce sui sagrati, che illuminava il grigio mescolato all’ombra, non aveva paragoni. Il brusio di chi indugiava prima d’entrare in chiesa, tramava il contrasto tra ciò che avevo alle spalle e quello che avevo ritrovato segnando, con un intenso brivido, una spaccatura che mai più si rimarginata.

Vagavo tra i dipinti delle navate delle chiese con l’aria di turista rispettosa, ma ero un angelo peccatore che avrebbe voluto eternarsi con quei cori di colore acceso e rinnegare, ancora una volta, quel mondo che sarebbe avanzato con le sue isterie, i suoi tic e… grattacieli di modernità.

Quel mondo che stava cominciando a degeneralizzare l’uomo con i nuovi marchi di jeans e le serrature con l’antifurto. Quel mondo che sarebbe stato abbindolato dagli abbracci di sempre più nuove campagne pubblicitarie, dalle tv, dalle brutte e nevrotiche abitudini artificiose e che mai più ci avrebbero reso liberi dal tempo di Mosè... e la sera tornavo avvilita dalla stanchezza.

La tenue luce sul soffitto svegliava la stanza ed io, immersa nella penombra, splendevo d’effimeri sogni colorati come la gialla tenda alla finestra e mi buttavo con tutti i vesti sul letto per poi risvegliarmi nel cuore della notte in quella mia piccola realtà illuminata di libertà. 

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© copyright Akkuaria 2002