Avevo ottenuto, senza
"incidenti", il permesso da mio padre di recarmi da sola a Roma. Il mio prima
viaggio era la mia prima grande conquista.
A Roma da sola! Beh! figuriamoci, a quei tempi, anche se il
"sessantotto" era trascorso rumorosamente, era sempre uno scandaloso,
soprattutto per le nostre "parti" andare al cinema figuriamoci partire da sole.
Allora non avevo neanche ventanni e lo stipendio di
un mese in tasca. Per la prima volta avevo lasciato il nido natale per affrontare, da
sola, un viaggio di lavoro verso leterna capitale.
Dovevo consegnare documenti da firmare, nelle mani di un
grosso personaggio e per questo avevo ottenuto, in cambio, una settimana di permesso.
Potevo ormai considerarmi una donna, anche se ancora non avevo raggiunto la maggiore età.
Ero già una ragazza che aveva conquistato la sua indipendenza e che da tempo aveva smesso
dessere unadolescente.
Quella mattina scesi dal treno più stordita di
unubriaca. La valigia carica dogni cosa. Con passi, lentamente scanditi come
battiti dorologio, camminavo sotto il cielo di Roma, portando a spasso il bagaglio
vuoto dellesperienza e una vita ancora tutta da vivere.
Col mio giubbottino di coniglio (pardon lapin)
addosso, sfoggiavo la mia prima pelliccetta. In fondo era la realizzazione del sogno di
possederne una.
Con un profondo respiro avevo calmato ogni emozione prima
di varcare lingresso di quellalbergo in via Principe Amedeo.
"Ho una
prenotazione a mio nome" dissi, con lindispensabile e preziosa ostentazione di
sicurezza al portiere. In fondo tremavo da tutte le parti.
"Singola?"
"Sì."
Erano gli anni settanta. Anni che offuscavano, con i nuovi
miti, i residui sessantottini ed io, impalata nellascensore, assieme al vecchietto
in divisa che teneva la mia valigetta di finta pelle rossa, guardavo lintermittenza
delle luci sui numeri che segnavano il piano. Si fermò al quarto piano. Lometto
percorse in silenzio il tratto di corridoio. Infilò la chiave nella toppa e, appena la
porta fu aperta, misi nel palmo della sua mano un prezioso foglietto di lire mille. Lui
ringraziando sparì con lo stesso silenzio.
Dalla finestra giungevano nitidi i suoni delleterna
Città. Ed io, ormai calata in quella nuova interpretazione non mi preoccupavo né di
fissare norme né regole. Non trascorse che poco tempo e mi ritrovai di nuovo per strada.
Colorata come un mazzo di fiori appena colto, odoravo di colonia. Ricordo che la testa mi
girava, a furia di camminare con il naso allinsù con gli occhi leggermente
strizzati provavo la sensazione daver squarciato un muro. Quasi mi pareva svenire
scoprendo, ad ogni angolo la suggestione romana.
Mi sentivo scaldata come una lucertola al sole. Il cuore mi
batteva a fior di pelle. Inebriata di quellaria che sapeva di glicine e di libertà,
mincantavo al suono di quel dialetto "romano".
Misteriosamente indulgenti, verso di me, gli alberi erano
li, inchiodati ai bordi della strada. Sembravano testimoniare la loro immutevole potenza
con i rami protesi verso il cielo. Persino il sole sembrava più vivo sopra i gatti
sornioni che se lo godevano. Mi rivedo ancora mescolata tra la folla. Avevo rinnegato,
senza rimorso, il canto della mia Trinacria. Rinnegato il sapore dei gelsomini, dei
limoni, del mare di Ognina per fare di me una figlia della "Lupa".

La presenza delle tante costruzioni, che con la forza di
una trasparenza arcaica, lacerava il sottile velo che divideva il passato con il presente.
Dentro la rovina cera un mondo sempre nuovo. La storia dei giorni, che non potevano
mai essere miei, era lì come una presenza sensuale, erotica, affascinante e consapevole
di mostrarsi rassegnata avvenente come una donna in copertina.
Quella bufera di felicità, che si scatenava con lotta
impara, Mi schiacciava come una formica sotto il tacco e, da animale affamato, divoravo il
pasto quelle immagini, che pur assaporandoli con gli occhi, mincutevano paura.
La dolcezza della luce sui sagrati, che illuminava il
grigio mescolato allombra, non aveva paragoni. Il brusio di chi indugiava prima
dentrare in chiesa, tramava il contrasto tra ciò che avevo alle spalle e quello che
avevo ritrovato segnando, con un intenso brivido, una spaccatura che mai più si
rimarginata.
Vagavo tra i dipinti delle navate delle chiese con
laria di turista rispettosa, ma ero un angelo peccatore che avrebbe voluto eternarsi
con quei cori di colore acceso e rinnegare, ancora una volta, quel mondo che sarebbe
avanzato con le sue isterie, i suoi tic e
grattacieli di modernità.
Quel mondo che stava cominciando a degeneralizzare
luomo con i nuovi marchi di jeans e le serrature con lantifurto. Quel mondo
che sarebbe stato abbindolato dagli abbracci di sempre più nuove campagne pubblicitarie,
dalle tv, dalle brutte e nevrotiche abitudini artificiose e che mai più ci avrebbero reso
liberi dal tempo di Mosè... e la sera tornavo avvilita dalla stanchezza.
La tenue luce sul soffitto svegliava la stanza ed io,
immersa nella penombra, splendevo deffimeri sogni colorati come la gialla tenda alla
finestra e mi buttavo con tutti i vesti sul letto per poi risvegliarmi nel cuore della
notte in quella mia piccola realtà illuminata di libertà.
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