TRENTA GIORNI DOMANI Racconto
Confusa dalla sua stessa ombra, la piccola piazzola sottostante è piena d'alberi.
Dall'alto della finestra m'affaccio per guardare i rivoli di gente, che passa e ripassa.
Sfiorano appena il mio sguardo prima di scomparire. Tra le pareti della stanza, tre letti.
In quello vicino alla finestra, mia madre è messa in croce. Appiccicata nell'orma
incavata dei lenzuoli, tra la febbre che, bruciandola, la divora.
Ha la testa affondata sul cuscino. Da otto mesi, ogni nuovo giorno è un nuovo calvario di
stanze d'ospedale. Mi chiedo se questa sarà l'ultima.
Ogni giorno è un giorno di troppo. Un giorno di sofferenza maggiore.
Quale speranza? Nessuna. Gli occhi, i suoi, sono quasi sempre chiusi. Dorme? Sogna? Per carità non svegliatela più! Ohimè, mi siedo sulla sedia a bordo del letto a guardarla. Lei immobile, io ammutolita,
impotente. L'odore dei broccoletti lessi si sprigiona dalla cucina. «Mamma butta giù la pasta, è
tardi ed ho fame». La cucina, a tutte le ore del giorno e della sera è illuminata dal
neon. «Non lasciare la luce accesa...» strilla mamma, «non la paghi tu la bolletta!»
(Sempre questa fissa da risparmio da dopo guerra). Gli armadietti, attaccati a muri, come sempre, mettono ben in mostra le scatole blu della
pasta: penne rigate, penne lisce, ditalini corti, spaghetti o bucatini. Tutta colpa di
papà. Ha la sua mania di voler mangiare sempre cose nuove. Cambia solo la forma: in fondo
la minestra è sempre quella. Resto seduta sulla sedia.
Impassibile la guardo. Non mi sembra vero: immobile, ammutolita, impotente. Non è così che voglio vederla.
« Mamma vieni a tavola cos'aspetti ancora che
si freddi tutto prima di mangiare? » Mamma è lì: con i piedi sempre fermi sul piccolo
tappeto a losanghe, che dovrebbe salvaguardare il pavimento dagli schizzi d'acqua del
lavello. « Mamma abbiamo finito di mangiare e tu ancora devi iniziare, com'è possibile
tutte le volte la stessa storia! » Vicino ai fornelli, con il corpo quasi abbandonato tra
il cestino di patate o quello delle cipolle, oppure tra i mucchi di piatti da lavare.
Sembra che sa strillare solo impaziente ma, con i suoi occhi tocca tutto. Come odio il
tintinnio dei cucchiai sbattuti, mi danno i nervi come l'odore del detersivo che mi da
nausea.
In questo contrasto d'odori pungenti, tra i
digiuni forzati, scivola nell'incoscienza. Com'è che t'accorgi sempre dopo com'è che
quel tutto che sembrava tranquillo, non era una tranquillità che non doveva finire mai! È la mia ombra che si agita sul letto. Riemergo dalla nebbia dei ricordi.
Adesso non è che un corpo soltanto tra la miseria della sua malattia. È un corpo
disfatto che può indicare solo sentimenti di pietà. Senza lacrime, gli occhi suoi
guardano sperduti in un punto lontano e non guardano nulla. La sua testa, con l'abbandono più forte del sonno, è riposta sul cuscino. Bagno la sua
fronte: è bollente. «Francesca vieni. Presto vieni, la mamma ha la febbre alta, chiama il medico...
Francesca. Francesca aiutami. Cosa possiamo fare. Presto non c'è tempo da perdere. Le
spugnature. Prepara l'altro flebo, questa è finita». Francesca, Pina, Rosanna, Angela sono i nomi delle infermiere che alterno con i loro turni
di servizio. Faccio fatica a capire chi è l'una o l'altra, mentre da giorni, con
disprezzo, guardo la nostra vita andare via. Va via attraverso miseri tubicini che la legano al letto. Servono a regolare certe
funzioni: alimentazione e drenaggio. Non possono essere così desolati gli ultimi giorni di questa ormai disgraziata e inutile
esistenza. Ora dorme. Probabilmente sogna d'essere di girare per casa. Ha sempre mille cose da fare, magari che
pensa di fare ma poi ancora una volta rimanda, forse è ora di mettere su a bollire
l'acqua per la pasta oppure impanare le cotolette invece mette i pomodori nel setaccio a
scolare. A papà piuttosto di un elaborato secondo preferisce mangiare un bel piatto di
pasta con la salsa di pomodoro fresco e le melanzane fritte. Anche a me piace il sapore
della ricotta salata grattugiata sulle belle foglie di basilico fresco. Ora dorme. Dorme con un sonno che dura solo pochi minuti. Sul bordo del letto è appoggiata la sua
mano. È così scarnita, così sparsa di fitte macchie giallastre. Quanti buschi in quelle
vene. Ora dorme. Com'è che t'accorgi sempre dopo com'è che quel tutto che sembrava tranquillo, non era
una tranquillità che non doveva finire mai! È del tutto uno scheletro. Sembra uscita da
qualche pagina d'un libro d'orrore. A guardarla mi stringe il cuore eppure non posso fare
a meno di riempirmi gli occhi di terrore. La sua faccia cambia colore. Va dal bianco
giallastro al bianco-rosso-brunastro. Sono colori che contrastano con i capelli bianchi e
opachi, appiccicati dal sudore sulla testa. Com'è che t'accorgi sempre dopo com'è che quel tutto che sembrava tranquillo, non era
una tranquillità che non doveva finire mai!
Lo sguardo di Pina non promette nulla di buono.
Pina, mia sorella minore, è nata appena due anni dopo di me ma sembra una vecchia.
« Hai i risultati? » La sua faccia non promette nulla di buono. « ...Danno per scontato che si tratta di... » « Anche mamma... come papà? » Ogni cosa all'improvviso sembra che avesse perso la forma: Papà!
Oh Dio mio... Papà! Non sono passati neanche sei mesi da quando se ne è andato tra le
sofferenze più atroci. Non è possibile che adesso ci tolgono pure la mamma. Non è
giusto tutto questo! Una notizia così ti cambia ancora una volta il corso della vita
senza che ne anche te ne accorgi.
La camera d'ospedale annega in un buio
palpabile. Tocco il suo braccio. La pelle è gelida, sudaticcia. Non riesco neanche a domandarmi
neanche questa volta il perché. Qual è il perché di questa assurda realtà. So soltanto d'aspettare che soltanto le sue
ciglia si sollevino per sentirmi dire con un filo di voce: "acqua..." e,
immergendo lo sguardo dentro i suoi occhi spenti, le verso brevi sorsi d'acqua gelata
nella bocca. Tanta è la sua arsura. Mamma, per quanto tempo ancora devi sopportare questo peso? E per quanto tempo debbo controllare nel mio cervello i rigurgiti d'ira? Mi odio con tutta la mia forza. Mi odio per questa immobilità senza senso. Mio odio per
questo mio senso d'impotenza. Per queste mani che freno. Per il desiderio di distruggere
tutto. Mi odio perché tra queste mascelle serro una spaventosa consapevolezza, ma non posso
distrarmi. Debbo tenere a mente tutto ciò che serve fare: controllare la bottiglietta
bianca e quella gialla appollaiata sul trespolino argentato, chiamare l'infermiera quando
la flebo sta per finire.
Papà, spettinato e con la barba bianca sul
viso, è ancora davanti agli occhi. Ha gli occhiali sul naso. È nervoso. Irrascibile.
Parla a scatti. Un uragano s'è abbattuto su di lui, su tutti noi e lui non lo sa. Quanti salti mortali
per non fargli capire la gravità della sua situazione.
«Perché ogni giorno che passa mi sento sempre peggio... Cosa dicono i medici».
«Papà, non ti preoccupare i risultati confermano che non c'è nulla di allarmante, di
preoccupante, tutto procede bene... è solo questione di tempo diventano più lunghe le
malattie quando si superano i cinquant'anni. Lo conosci quel proverbio "dopo la
cinquantina un male ogni mattina"». I suoi capelli sono sempre più spenti e irti sulla testa, quasi a rispecchiare i
chilometri di bugie che siamo costretti ad inventarci. Papà non potrebbe mai sopportare
l'idea che sta per morire, potrebbe morire ancor prima dei suoi giorni. Per caso ci si ritrova a passare a far visita in ospedale. Ormai tutta la famiglia è
diventata parte integrante di quella stanza. Anche fuori orario, nessuno ci dice nulla.
C'è tanta attenzione verso papà da parte dei medici e degli infermieri del
"Garibaldi" anche la notte quando, uno di noi decide sempre di restare a fare
compagnia a papà che ha l'insonnia. Ha difficoltà a dormire anche se imbottito di
sonniferi. Non solo i sonniferi fanno più effetto neanche la morfina che aumenta sempre
di dosaggio. C'è sempre sulle nostre labbra un sorriso e questa scena si ripete e ricomincia tutte le
sere, quando noi, a turno, seduti accanto al suo letto pensiamo che non avrebbe superato
la notte. L'incubo ricomincia l'ora in cui il giorno inizia con la certezza che non sarebbe arrivato
fino a sera. Non è rimasto da solo neppure un attimo e tra un cambio e l'altro siamo tutti fermi a
sostenere la sua folle paura di finire il resto dei suoi giorni su una sedia a rotelle.
Già la sola idea lo manda in bestia. Non si rassegna all'idea di perdere l'uso delle
gambe e per questo s'aggrappa con più forza alla vita. S'aggrappa con le unghie delle mani. Trascorro pomeriggi interi a massaggiare le sue gambe, dalla punta dei piedi e fino
all'inguine, prima una e poi l'altra. Il suo male è collocato altrove e non sulle gambe.
È un male che cova e divora sempre più i suoi giorni che trascorrono inesorabilmente
lenti. La faccia di papà diventava sempre più livida, più cadaverica, oppure è rossa come il
fuoco e quando la febbre lo sfianca e lo divora l'unica cosa da fare è rigirargli il
cuscino dal lato asciutto. Da giovane anch'egli era partito per la guerra e per uno strano caso del destino aveva
lasciato Venezia. In quella città aveva conosciuto una donna di cui se ne era innamorato
ed è rimasto innamorato tutta la vita. Ogni occasione è buona per raccontarmi i momenti
di questo periodo della sua vita e anche se conosco tutti i minimi particolari, continuo
ad ascoltarlo. L'aveva lasciata con la promessa che sarebbe tornato presto a sposarla.
Tutte le lettere che papà aveva inviato a questa donna non sono mai state recapitate, per
colpa del suo genitore geloso che le sottraeva sistematicamente appena arrivavano a
destinazione. Questo lo seppe quarant'anni dopo, quando era ritornato a Venezia col solo
desiderio di ritrovarla. Non sarebbe tornato indietro se non l'avesse trovata. "La veneziana". Appena pronunciava il suo nome la mamma andava immediatamente in
bestia. Lei ha sempre nutrito un'atroce gelosia nei confronti di una donna che mai avrebbe
attentato alla sua famiglia né alla sua vita, ma nuoceva a quella parte di cervello che
nessuno mai avrebbe potuto rimuovere. Questa è stata la storia più importante nella vita di papà. Da allora una sua foto,
ormai stinta, logora e smunta, è sempre stata riposta nel portafoglio, tenuta sempre
vicino al suo cuore. È commovente comunque apprendere l'amore d'un uomo per una donna
anche se quest'uomo è tuo padre e la donna non è tua madre.
Attese inutilmente un segnale da Venezia che non giunse mai e così ripiegò sul fatto che
nel frattempo aveva conosciuto quella che sarebbe diventata la nostra mamma e qualche anno
dopo si ritrovò sull'altare a pronunciare quel fatidico "sì". Esattamente un
anno dopo io venni al mondo e dopo di me, a distanza di due anni ciascuno, una sorella, un
fratello e poi un'altra sorella. Da allora la sua vita, tra gli alti e bassi, è stata tutto un brontolamento.
Provo a cambiare il fazzoletto azzurrognolo che
cerchia la fronte. Anche mamma come papà. Mi spaventano quegli occhi spalancati che si sforzano e cercano di
vedere cosa succede intorno. Non riesco a rendermi conto se è proprio me che guarda e mi
chiedono da quanto tempo è in quello stato. « Acqua » borbotta a fior di labbra. L'acqua è fredda ma non abbastanza per spegnere
l'incendio che divampa sulla sua lingua. 48 gradi segna il termometro a Catania, e siamo appena ai primi giorni d'agosto. Nell'aria
il caldo, sempre più pesante, opprime le giornate che trascorrono davanti ad un paio
d'occhi che guardano indifferenti. Mi torna in mente che suggerii a papà che invece di
raccontarcela di mettere per iscritto quello che ci diceva. La storia dei momenti più interessanti della sua vita cominciò a prendere posto sulle
righe di un quadernone che diventò un diario. Mi chiese che lo battessi a
"macchina" - appena avesse finito - voleva regalare a noi tutti una copia a
ciascuno dei suoi nipoti. Ecco, davanti agli occhi sfilano a una a una tutte le pagine che durante il corso della
sua malattia papà riempiva, inizialmente, con un fervore particolare e soprattutto con la
scrittura tremante. Quasi che quelle pagine, che ne dettagliano la descrizione, fossero
state scritte, per la freschezza dei ricordi, cinquant'anni prima: dalla partenza per
l'ultima guerra fino al ritorno a casa. Oltre quel momento è come se la vita di papà avesse preso un'altra piega. Ricordava con
tanto accanimento umori, sensazioni, fatti, luoghi, e persone che cinquant'anni prima
hanno attraversato la sua vita, poi un minimo accenno all'incontro con la mamma, al suo
matrimonio, alla nascita dei primi tre figli, il suo lavoro. Man mano i ricordi sfiorivano
come se tutto ciò improvvisamente fosse diventato meno importante.
Ritorno alla realtà. Tutto è dinanzi a me e come in un crescendo selvaggio. Seguo il ritmo e il ripetersi dei
suoi lamenti. Nelle pause del silenzio sento il battito del mio cuore che aumenta. Ma ecco che a passo leggero m'avvicino. Allungo il collo e con l'orecchio teso ascolto.
Mormora confuse parole nel sonno. Dorme. Si sveglia. S'attacca al mio braccio. La sua mano è bollente. Si stacca e s'attacca. La sua mano ritornano al posto di prima, sul letto, vicino al fianco. Diventa una sorta di
via vai. Mi prende la mano dopo qualche istante la strattona via.
Si riaggrappa al braccio. Tra l'indice e il pollice un angolo del mio braccio, sotto l'ascella, stretto in una
morsa. Ho male. Non sapevo quanto facesse male quella parte del sotto braccio. Dopo un po', con
più calma di prima, con la calma d'una stagione che non avrà più un'altra primavera,
gira gli occhi di qua. La sua mano è sul mio viso.
Forse ha sentito la necessità di accarezzarmi. Non l'ha mai fatto.
Non ricordo una carezza di mia madre.
Ad un tratto la mano si ferma tra le labbra.
Le torce. Stringe tutta l'area attorno al naso in un gesto di stizza, come se volessi strapparmi
tutta la pelle dalla faccia. I suo occhi, ubriachi di rabbioso dolore, sono puntati nelle mie pupille. Ho paura. Paura. Ecco che il pizzicotto sul braccio brucia. Nei suoi occhi leggo qualcosa che da tempo avevo dimenticato. Quarant'anni mi dividono dalla quella sensazione che con immaginabile prepotenza ritorna a
galla dalla memoria. Era la sorellina che un giorno lei mise tra le mie braccine. Quel grande minuscolo
batuffolo bianco. Non so come cadde dalle mie mani. Forse la lasciai cadere apposta,
rifiutandola di tenere in braccio colei che aveva sotttratto l'unico affetto della mia
vita. Il mal rovescio del suo palmo mi colpì al viso e prima di chiudere gli occhi
guardai nei suoi un'espressione che mi si dilagò nel petto. Da quel giorno imparai a fare i conti con la matematica: un affetto diviso per due
sottraeva il mio spazio e moltiplicava i guai. Solo un ricordo della mia infanzia: mia madre che mi costringeva per ore e ore a masticare
un filo di pasta dietro l'altro, chiusa in un angolo, così non potevo muovermi e quando
l'ultimo pezzo di pasta tappava ancora una volta la mia bocca, il piatto lo sentivo che si
rompeva sulla testa. I miei braccini di bimba pieni di morsi. Il mio mutismo o forse ostracismo, mia madre lo
sfogava attraverso i pizzicotti che con rabbia scaricava sulle mie mani o sulle braccine. Non pensavo che in un attimo potessi odiarla così tanto.
Eppure è lì sul suo letto di morte. Ma quante volte le mi aveva dato la morte oltre la
vita. Tutte le volte che mi aveva negato un abbraccio. Non m'abbracciava mai. Tutte le
volte che mi rifiutava qualcosa che desideravo. Non mi comprava niente. Era la nonna il
rifugio dei miei piccoli bisogni: una monetina per le caramelle.
Il cervello non è razionale. Se da un lato ti
salvaguarda dai brutti ricordi seppellendoli negli angoli inaccessibili della tua memoria,
al momento opportuno ecco ti sferra un attacco e ti ripropone tutto ciò che accuratamente
ha rimosso, per ferirti. Per quarant'anni ne avevo perso le tracce. Torno a sedermi accanto al letto. Mi sono
calmata. Sulla mia fronte era spuntato un sudore freddo come quel freddo sconforto che per
tanti anni ha fatto da padrone nella mia vita. Da piccola non aprivo mai bocca neanche quando mi si rivolgeva la parola. Avevo otto anni
quando la mia famiglia si trasferì a pochi chilometri più lontano, in un'altra città.
Rimasi sola con la nonna (vecchia) e lo zio (orso). Avevo pochi anni. Troppo pochi per restare in balia di me stessa e come se non bastasse
pensare di badare alla nonna che già ci vedeva a stento. Tutto quello che era stato la
conquista della nostra famiglia era stato portavo via. In quella casa per me era rimasto
solo un divano-letto che tutte le sere (per tante sere) avrei aperto, tirato giù la rete,
dormirci e poi richiuderlo il mattino dopo. Niente più sorelle né fratello, niente
favole il martedì pomeriggio in televisione: sola, ero rimasta da sola. La visione del
deserto non sapevo cosa fosse, me ne accorsi giorno dopo giorno per tutti i giorni che si
affiancarono uno sull'altro.
Fragili squarci di luce nell'aria biancastra
sono sospesi davanti la persiana mezza abbassata. È sempre lo stesso cielo che filtra tra
i rami che nel cielo spaziano liberi per occultare la vista al di là dell'albero.
Era lo stesso cielo che una volta filtrava tra i rami e che bussava piano attraverso le
foglie per fare galoppare la mia fantasia. Così come da bambina galoppavo tra le larghe
foglie di ricino. Era lo stesso sole. Quasi la fantasia galoppa tra le foglie a ricordarsi che lo stesso
sole tra i rami era lo stesso immutabile sole che tra i rami che non sono gli stessi,
com'io non sono più la stessa bambina che incurante giocava dentro i ruderi dietro casa. Ricordi di ciò che anni prima era stata la "guerra" adesso sono arbusti di
ricino dalle larghe foglie. Stesa per terra guardavo l'ondeggiare leggero leggero delle
foglie e quelle carezze di vento mi sfioravano. Adesso, appena appena, un filo d'aria generoso s'affaccia sotto il naso a concedermi un
attimo di frescura in quest'attimo di pace che la stanchezza ha catturato entrambe. Mamma non dorme. È talmente svilita e stanca che neppure la stanchezza la vince. Non sono più seduta, ma distesa su una di quelle sdraio che di solito si usano d'estate
per prendere il sole sul balcone o il fresco di sera. È una sciagura. Faccio fatica a credere che ancora una volta ci sia capitata. Traggo un lungo sospiro quasi a voler aiutare quello corto di mamma che a stento si spegne
in gola. Fuori, da dietro la persiana chiusa, c'è il sole. In quella stanza la penombra prima e il
buio dopo l'abitano. Dalle stanze accanto è tangibile il via vai di gente. Fianco a fianco io ai piedi del suo letto. Il suo piede ora sul materasso, ora sul mio seno, sembra quasi un grosso cordone
ombelicale che come una volta, una volta quando ero dentro il suo ventre, lo stesso
d'adesso, che ora dopo ora continua a marcire tra liquidi verdastri che escono a
fiumiciattoli attraverso la sondino che esce da una delle due narici. In questo sottile confine gli sguardi s'incrociano. Sguardi che non parlano ma che dicono
tutto. Non parla, come se non potesse, si trovava in un altro mondo. A momenti sento le
sue dita sfiorarmi. La vedevo come una bambina che ha sonno ed ha paura d'addormentarsi
perché poi, se s'addormenta, la lasciano da sola.
La voce di Suor Agata è inconfondibile.
Squilla argentina e riempie tutto il reparto. Dall'alto della sua bontà, quella minuta e
impalpabile presenza bianca s'aggira silenziosa tra i letti senza tralasciare nulla. Molte
volte mi sono chiesta come sarebbe stata la sua vita se avesse scelto un'altra strada.
Sicuramente vuota. Non riesco ad immaginare Suor Agata in un altro modo. Sembra, anzi
certamente è nata per volere di Cristo e nel nome di Cristo lei porta ogni istante il suo
rassicurante sorriso anche se a volte la stanchezza sui suoi occhi vorrebbe posarsi.
Oggi è domenica. Trenta giorni domani. Trenta
giorni trascorsi in questa cella d'ospedale, nel buio di questi pochi metri quadrati. Le sue gambe non sono più quelle d'un deportato. Sembrano appena più pienotte, la pelle
non è raggrinzata, è ben tesa sulla coscia ed il colorito varia tra il pallore rosaceo e
il bianco candela. Certo è alimentata via cavo 24 ore su 24 come le galline da uova.
Alimentata per irrobustire e sostenere il suo organismo e poi darlo in pasto ad un male
che non lascia speranza. Quando non dorme di quel sonno miracoloso che spegne il suo cervello e la trasporta
lontano in un luogo lontano ove nulla la sfiora ecco che dalle due fessure aperte degli
occhi osserva tutto ciò che ci circonda. A fil di voce chiede se alla vecchina di fronte, ricoverata da qualche ora,
avevano già
fatto il "tracciato". C'è movimento nella stanza nell'ora delle visite, la mamma dorme e non resta da sola. M'alzo per sgranchirmi le gambe in medicheria, dove già sono di casa. La sento agitare nel letto.
Torno indietro. M'avvicino.
A fatica ripete qualcosa. A fatica percepisco « aiutala prima che arrivi per terra ».
Dietro di me l'anziana signora di Palagonia. Una volta la sua schiena era dritta. Adesso
ha la testa a metà tra le spalle e il petto. È ricurva e per camminare s'appoggia al
bastone. Come al solito mamma si preoccupa di tutto e di tutti quelli che circolano attorno a lei e
mai di noi. Si è preoccupata sempre di tutti, di tutti quelli che in questi otto mesi di
malattia non sono mai venuti neppure una volta a trovarla in ospedale oppure non si sono
neanche degnati di fare una sola telefonata. S'è sempre preoccupata di tutti anche dei
parenti, gli stessi che non hanno trovato un solo momento per venirla a cercare. Ci sono voluti quarant'anni per comprendere mia madre. Lei in tutta la sua vita non ha mai
avuto la più piccola delle preoccupazioni "reali". Non ha mai avuto la
preoccupazione di pagare un debito o di recuperare i soldi per dare da mangiare a suoi
figli. Trovarsi con una scadenza davanti e non avere i soldi per pagare una cambiale.
Grazie a Dio papà ha sempre portato i soldi a casa, pochi ma li ha sempre portati.
Lui che si è sacrificato tutta una vita per non darle preoccupazioni ma, forse, questa
mancanza di preoccupazioni "vitali" l'ha portata ad occuparsi "a tempo
pieno" degli altri. Certo che occuparsi degli altri è davvero un compito nobile
soprattutto è bello occuparsi degli altri per dimenticarsi delle proprie responsabilità.
Anch'io piccolissima sono stata ricoverata in
ospedale. Erano appena cominciate le vacanze e la terza elementare era alle spalle.
Ricordo quel periodo come uno tra i più belli della mia vita. Attorno a me c'erano tante
persone che si prendevano cura di me e mamma che girava per i letti ad occuparsi di tutti,
tranne di me. È sempre stato nella sua natura.
In quei pochi giorni di degenza papà, tutti i pomeriggi tornando dal lavoro, mi portava
sempre qualcosa soprattutto le scatoline di latta, rotonde o rettangolari. La prima
conteneva caramelle e la seconda biscottini. In tutta la mia vita solo quattro regali ho
ricevuto da papa: le due scatole un ciondolino d'argento quando è tornato da Malta e un
colbacco di pelliccia quando è tornato dalla Russia. Da piccola tante volte ho desiderato ritornare in Ospedale tant'è che strada facendo
decisi che avrei fatto "da grande" l'infermiera. Meno male che ho seguito
un'altra strada. È un lavoro che non potrei fare. Seguire e stare accanto alla gente che
soffre ci vuole tanta di quella pazienza di cui non possiedo neanche una briciola.
Toccare gli altri è qualcosa che mi ha creato da sempre problemi.
Il suo piede adesso è avvitato a forza contro
il mio braccio. Dalla sua bocca, con un lamento, chiama sua madre « Ma'- Oh-ma ».
Chissà che rapporto avevano loro due. La nonna dopo il primo parto, da cui è nato lo
zio, era rimasta così sconvolta che non capisco come poi ci ha riprovato ad avere
rapporti carnali con il nonno. Credo che l'unica volta che poi ci ha riprovato è rimasta
incinta di mamma. Il primo parto per lei è stato disastroso. Lo zio quando è nato pesava
oltre quattro chili. Distese, lei sul letto io nella sdraio, ci guardiamo senza parlare. La guardo e sento che
è una parte di me che va via o sono io che sono andata via dal suo ventre, da lei senza
mai tornare. Sembriamo due pugilatori ai lati del ring in attesa del prossimo gong. Dopo
anni di lotta continua eccoci: tutte e due al tappeto, distrutti. « Angela la temperatura di mamma è salita ancora, chiama il medico. Cosa dobbiamo
fare... ». Angela, Francesca, Rosanna, Filippo, Ernesto. Ormai riesco a collegare i nomi con le
facce. Conosco a memoria le loro voce, i loro nomi, i loro caratteri. Debbo confessare che
molte volte ho invidiato la pazienza e l'abnegazione con cui sopportano gli estenuanti
turni di lavoro e spendono la loro pazienza con sorrisi e disponibilità.
Vorrei mandare tutto in aria. Sparire. Trovarmi
in un altro posto. La sua fronte comincia ad imperlarsi di gocce larghe che scendono sul collo quasi fosse un
fil d'acqua che leggero scorre da un rubinetto . Preparo gli asciugamani. Tra poco il sudore la inonderà di nuovo. Mille ferite mi s'aprono sul cuore. Non sono voci di sirene lontane, quelle che ascolto ne
l'odore è d'incenso e di profumi d'orienti. Non è il profumo di mare. No! Sono solo
lamenti e insipidi fragranze di medicinali. Un ritmo forte doin-doin-doin-in 'na è la vena che batte sul polso. Tonf-Tonf è il mio
cuore che batte da dentro le orecchie. Questi due suoni si propagano lungo e dentro il
corpo. Rimaniamo silenziosi, io e le mie sorelle, quasi raccolti in un unico pensiero, come se
facessimo parte dello stesso filo che s'avvolge in un gomitolo: attoniti con i nudi
ricordi nelle diluite sensazioni che fanno tanto male. Tutte e tre a morderci le labbra, inibite in un muto parlare di frasi sconnesse che non
sembrano contenere il senso di panico. Nel silenzio, silenziosi e immersi nei rantoli. Altre volte già fummo presenti. «
Ricordi? anche papà... ». Noi, negli sguardi compenetrati e dietro di noi le notti, i giorni. Noi da sole coi nostri sguardi che sono pesanti parole. Quella che fu la nostra fonte di vita sta per prosciugarsi con le ultime gocce che
svaniscono tra le perle di sudore. Già si pensa alla bara, al funerale. Ha gli occhi giallastri sul volto sempre uguale, sempre più bianco. Un relitto umano
appeso ad un filo, un tronco senza linfa, eppure è stato un forte tronco. « Spegni la luce e dormi... » dice lei.
Chiudo il libro sulla pagina che di tanto in tanto, nei brevi momenti di sosta vado
leggendo e con il fazzoletto le asciugo il sudore sulla fronte e attorno agli occhi. Pare che dorma su un materassi di spine. Un'ultima ombra è distesa sul letto.
Non so perché ma ho l'impressione che è l'ultima notte.
La febbre oggi non l'ha divorata. Sopra la fronte i capelli non sono appiccicati dal
sudore. Accanto alla nostra vita c'è un'altra natura che ti smorza la realtà, un invisibile
alone che non considera il travaglio della realtà e interpreta la vita e ti dissolve
contro l'inaccettabile senso della perdita. In uno slancio ti fa credere e sperare. La
memoria diventa una larva che illudente naviga nell'esule speranza d'una guarigione che
mai arriverà. Gli occhi, sempre più disincantati, sono fissi nei nostri non cercano più speranze,
cercano il desiderio infelice di porre rimedio alla sofferenza.
Schiarisce l'ora. È appena l'alba. Tutti
immobili attorno al bianco lenzuolo che sovverte ciò che è stato consueto. Il silenzio è profondo. Dalla bocca d'ognuno si pensa che qualche suono possa uscire dalle labbra a spezzare la
quiete che scandisce i respiri nel petto. Trenta giorni appena ieri.
Adesso possiamo parlare a voce normale ma nessuno parla. Il suo corpo è avvolto da un misterioso grigiore che sfuma quasi i connotati, ne rimane
la visione di qualcosa d'irrimediabilmente perduto. Tutto è avvenuto.
Tutto doveva avvenire. Non c'era nulla da fare.
La mia mente non rimurgina più né sensazioni remote, né recenti né li scompone. Anche
se te l'aspetti le brutte notizie, quando arrivato all'improvviso ti creano sempre un buco
sullo stomaco. Mi sento da sola davanti al vuoto. Il freddo calcolo della vittoria ha regalato alla tua
vita la carità d'una disfatta. Adesso mamma le tue giornate saranno serene. Senza il disgusto che ha fatto di te un
frutto ambito dal dolore. Serena sarà la tua nuova natura, senza né più carne e sangue
rosso. Ora ti pettino, mamma, senza provare la paura di farti male. È fredda la tua fronte, non
importa. Non importa che muti aspetto o forma. Io resterò qui, nelle vicinanze del mare.
Perché non hai aspettato neanche che il prete venisse a rovesciarti gli occhi? Lo sai che
mi restano mille cose da fare nella giornata; qualche panno da lavare, dare da mangiare al
gatto. Non credo che laverò i vetri. Mamma, questo scompiglio mi ha violentato senza che me ne rendessi conto. Non mi sono mai
resa conto di come solo i pensieri hanno raggomitolato le giornate spronate dalle ore
trascorse guardandoti senza capire che quella nebbia grigiastra aspettava solo di
riprenderti nel suo grembo. Avrei voluto uccidere il tuo dolore che serviva solo a
renderci impotenti. Io resto qui. Tanto non tremano più le perle di sudore sulla tua fronte, l'ultimo gradino
l'hai già superato.
Tutta la notte t'abbiamo vegliata mamma. Ora
sei tutta bianca e composta. Sei anche graziosa con questo vestito a fiori azzurri, sai
che non ricordo d'avertelo mai visto indosso. Mamma vorrei chiederti se sei morta nel sonno o hai atteso di guardare in faccia la morte? Mamma non dovrai più badare a quello che ti faranno. Di certo niente iniezioni, punture e
martiri. Adesso non ti faranno più nulla.
Adesso puoi stringere forte il rosario tra le tue mani.
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